Per S.Valentino mi rifaccio il naso

Chiamatelo naso importante.

La vita, come Michelangelo, me l’ha tirato fuori a suon di cadute e di colpi.

E continua a martellarlo, quando, mentre il resto del corpo si gode la luce del sole di primavera, le lacrime decidono di scendere copiose al ritmo di sei starnuti al minuto.
Maledetta allergia, ti aspetto al varco.
E maledetti sono quei giorni, in cui il mio naso è trasformato in una fastidiosa e pressoché inutile appendice della faccia.

Niente odori e niente sapori.

Odori e sapori, voce del verbo ricordare, 2ª persona singolare: quella che ti punta il dito contro.
Un ponte tibetano che porta alla memoria, sconquassato dalla potenza del vento dei profumi.

Profumi come quello della casa di mamma, a migliaia di km da qui, quando preparava il suo the ed io ero fuori a giocare a calcio, parlando una lingua degli occhi più che di parole;
profumi come quello del mercato a Torvaianica, da zia, quando gattonavo nel giardino della casa al mare;
profumi come quello degli Oro Saiwa nel mio the, con gli occhi ancora impastati di sogni prima di andare a scuola; o come quello delle focacce del panificio in piazza che mi accompagnava per la metà della mattinata che precedeva l’intervallo;
profumi come quello dell’olio di canfora di papà quando arrivava sera;
profumi come quello della pasta aglio e olio alla mensa della scuola, che di aglio non ne aveva ma facevi sempre il bis;
profumi come quello dei libri di scuola appena comprati o della copertina in plastica colorata intorno ai miei quadernoni;
profumi come quello del cuoio della palla a spicchi o come quello del tatami.

Come quei profumi che rimangono impressi nella tua mente, quei segni di matita che neanche la gomma riesce a cancellare completamente.

 

E poi ci sono quelli che tornano un po’ di più e riescono a parlarti diversamente:
come quello della salsedine del mare che è profumo d’estate, che a Rimini mi parlava di riposo e mi abbracciava e a Finisterre, alla fine del mondo, anni dopo, mi parlava di méta, di libertà e di speranza;
come quello della pelle che ti parla dei tuoi limiti quando fatichi, del dolore quando te la sbucci rovinando a terra, della guarigione quando inizia a formarsi la crosticina e del desiderio quando respiri la “sua”, quella che riconosceresti in mezzo a 1000 altre, quella con cui vorresti addormentarti al sera e risvegliarti la mattina.

Ci sono profumi che ci piacciono indistintamente come quello dell’erba tagliata, dell’asfalto appena colato, della benzina, del pennarello indelebile, della vernice, di bomboloni dopo la mezzanotte, della macchina nuova, del borotalco, della pancetta in padella, d’incenso, di pop corn, di bucato… che in realtà hanno anche loro un posto nella platea dei ricordi, ma a furia di sentirli, vicini al palco di scena, credi che siano buoni e basta.

E di profumi è intriso anche questo blog, per cui, all’inizio, avevo pensato al nome di un profumo che lo rappresentasse: il petricore, il profumo di pioggia appena caduta, quello degli acquazzoni d’estate, quello della terra bagnata. Quello che ti dice che il peggio è passato e torna il sole. Quello che ti dice che, anche se è stato breve, ha lasciato la sua impronta. O anche quello che anticipa di poco il temporale, il profumo di ozono (che viene da una bellissima parola greca, òzein, che vuol dire proprio mandare odore): il profumo di attesa.

 

L’altro giorno parlavo proprio di profumi con dei ragazzi che, pazzi!, avevano una gran voglia di ascoltarmi: è tradizione ebraica considerare l’olfatto come l’unico senso da cui l’anima possa trarre piacere; gli altri sensi servono al corpo.

Addirittura in quel best seller, che è la Bibbia, in quel racconto che davvero chiunque conosce, l’olfatto è l’unico senso inutilizzato dai 2 ospiti, nel giardino dell’Eden (il paese delle delizie): Eva vide che il frutto era buono, e Adamo ascoltò la voce della moglie. Ovviamente entrambi lo presero e lo mangiarono.

È come se fosse il senso incontaminato.
È come se l’olfatto fosse il più spirituale di tutti i sensi.
È come se arrivasse là dove gli occhi e le orecchie non possono.
È il senso dell’oltre, di quello che non sai se c’è. È il senso dell’intimità.

Ti permette di scoprire e di distinguere realtà molto sottili, del tutto nascoste agli altri sensi.

 

Per questo S.Valentino, potessi, vi regalerei, in tempi in cui l’arte è quella degli scultori di corpi marmorei, una bella rinoplastica.

Non che il naso non sappia il fatto suo.

È che so bene che per ogni coppia, per ogni persona che decida di dedicarsi, oggi più che mai, a quel profumo costosissimo, ma inestimabile che chiamiamo amore, ci sarà qualcuno pronto a sminuire, a minimizzare, ad accusare di ingiustizia il mondo, a credere che il suo naso non vada poi così bene, che non sente niente.

Come ogni altro buon profumo, anche l’amore si diffonde: parte da chi lo vive e inonda, quasi con prepotenza, la vita di chi sta intorno.

Non si vede e non si sente se non solo quando lo si è inalato.

Ma non dovete, per forza, rifarvi il naso: quello è per ingannare la testa.

Dovete solo tornare a respirare meno con la bocca.

Anche se lo smog di Milano vi farà far fatica, se chiudete gli occhi sentirete quel profumo intenso e vi ricorderete che anche voi, in fondo, quell’odore l’avete già sentito, anche se sono passati anni e avete imparato a vedere il mondo da un po’ più in alto del materassino della culla.

E allora sarà un buon S.Valentino, per tutti. Per quelli innamorati e per quelli sopraffatti dall’amore, che ha poco a che vedere col profumo del miele e dello zucchero.

E, se proprio non ve lo ricordate, provate, almeno per oggi, a non imbottirvi di Chanel nº5 o di Allure.

Respirate(vi).

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