Siri, portami a casa

Siri, portami a casa.

Questa è stata la litania che ha chiuso le mie serate di un maggio che ormai ha sempre più i colori di ieri, quelli carichi del tramonto.

È stato come il finale d’obbligo, il felici e contenti per giorni da favola come questi.
È stato come se quella vocina robotica fosse lì, ad aspettarmi, pronta a prendermi per mano e a riportarmi a casa.

Tranne venerdì, l’unico giorno in cui, in teoria, conoscevo già la strada di casa.

3.10, cotto, di ritorno dai campi di Marcallo con Casone.
Lo stesso giorno del pomeriggio in Duomo con gli animatori della Diocesi.
Tasto in mezzo del melafonino, il bip si mette ad ascoltarmi:

Siri, portami a casa.

Ok, ottengo le indica…

Spento. Batteria più cotta di me.
La testa è spenta da ore ormai, inizio a dare la caccia ai cartelli.
Passo 2 volte per il centro di Magenta e mi perdo all’inseguimento del riflesso della Luna.

Voglio tornare a casa.

C’è un vocabolo che usano gl’inglesi: coziness. E il suo aggettivo, cosy.
E mi fa ridere perché è allo stesso tempo esattamente la mia idea di casa e quello che un bambino potrebbe rispondere se gli chiedi come sta a casa sua: “così!” ti direbbe, mostrandoti una posizione, o una faccina, o una direzione.

Cosy vuol dire, comodo, intimo, accogliente, caldo.

Ed è proprio questo tornare a casa: tornare al calduccio e al profumo di cena; al lento sprofondare nei cuscini del divano, all’abbraccio dell’aria calda che precede il piumone, al brivido del getto del doccino, sempre storto.

 

Ci affanniamo ad ostentare ospitalità, ma siamo tutti mendicanti che tornano a casa a cercane un po’ per sé: è il nostro modo di chiudere il cerchio.
Lasciamo sullo zerbino la polvere confidando che oltre quel buco nel muro riceveremo una pioggia di pace e serenità.
E fa ninete se non è così e la convivenza con gli altri è un’istigazione alla strage: nessuno può intaccare la sacralità del nostro rito.

Vogliamo esplorare il mondo, andare via, lontano.
Ma casa è ciò che nobilita il viaggio: non c’è viaggio senza casa.

Non c’è bisogno di vederne tante per capire casa tua.
In casa tua è tutto dove deve stare, anche le penne, che seguono lo stesso ordine che segue la Terra nell’immensità del cielo. Sono a posto.

E ci provi quando vai al mare, in montagna, anche in albergo! ma non è mai la stessa cosa.
Ricrei delle brutte copie e non vedi l’ora di tornare, anche solo per poterti sentire di nuovo benvoluto e benvenuto.

 

Casa tua a 15 anni ti sembra una prigione di muri, a 20 un museo di storia della tua vita, a 25 un open space senza porte che t’invita a disegnare linee che un giorno avranno il loro tetto.

 

Voglio tornare a casa e, quando ti manca, casa non è più neanche oltre quella porta: casa diventa quello che c’era prima, quello che avevi prima, quello che viene prima: l’abbraccio di chi non vedi da tempo e ritrovi in un posto lontano, il profumo di quei biscotti per le vie di una metropoli ancora da esplorare, una parola nella tua lingua, la tv che va.

Alle volte casa è solo una sensazione.

Volevo tornare a casa e ci son riuscito.

Ma oggi, tornando a casa, un drappo grigio dava la notizia della morte di un mio caro vicino.
È tornato a casa, dicono.

Casa ad un certo punto finisce di esserlo: rimangono le mura e te ne vai.

La verità è che casa non è né qui, né là: casa è dove c’è un posto caldo per te.
Che sia un loft, un appartamento, un pensiero o un cuore.

Che sia cosy. Che sia “così”.

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