Credi ancora alla primavera?

Mi piace il minestrone.
Non l’avrei mai detto anni fa, ma è così. Certo, ho ancora le mie fisse — la verdura dev’essere rigorosamente frullata — ma mi piace. Faccio pure il bis.

Non ricordo come sia successo.
L’odiavo all’inizio.
Poi, nell’età del mangio-su-ordinazione, non mi sono mai posto la questione: mi limitavo a fingere che non esistesse tra le opzioni.
Eppure da 2 o 3 anni va così.
Sarà che chi me lo preparava godeva di una rinata stima da parte mia.

Sarà che la stessa cosa è capitata un anno fa.

Giusto in questo periodo, un anno fa, vagavo per strade poco asfaltate armato della mia reflex in cerca di una cosa soltanto: la felicità.
Sua (di lei) e di conseguenza, mia.
E la felicità aveva la forma di un piccolo fiore vestito di rosa.
Sicuramente il mio per chi ha avuto una grossa fetta di responsabilità sul perché oggi mi prenda sempre del tempo per godermi quell’albero vestito di rosa.

È un fiore tremendamente umano quello di ciliegio.
Le culture orientali ne sono attratte, ma difficilmente si può stare indifferenti a storie del genere anche a queste latitudini.
Storie di potenza esplosiva, in cui la bellezza senza macchie incontra una fine senza remore.

Ci ho messo un sacco a trovare l’albero giusto.
Arrivavo sempre troppo prima o troppo dopo: mi sentivo nel pieno di un inseguimento in cui le lancette del tempo correvano molto più veloci della mia macchinina rossa vicino a bei prati, possibilmente incontaminati.

Osservare i fiori (quello che i Giapponesi chiamano 花見 Hanami) non ha nulla a che vedere con la versione light del buon attivista di Greenpeace: telo azzurro in terra e picnic in compagnia, all’ombra degli alberi. Questo il quadretto per i viali del Sol Levante. Di notte, tutto illuminato con le lucine come a Natale.
È l’uomo che tenta disperatamente di fare a gara con la natura per creare la meraviglia.

Di fatto, andare a caccia di scatti di felicità che cade dagli alberi può spiegarti molte cose.

Ho assistito ad un inno alla vita.
A quella che si copre nella bellezza disarmante delle sue fragilità e della sua delicatezza: il ciliegio inizia un po’ a morire proprio quando brilla nella sua fioritura.
A quella che vive d’istanti, che si coniuga solo al presente, a quello che c’è, che è un evento, che sa che questo momento esatto non tornerà più e che non vive di rendita, ma racchiude in sé ciò che di più autentico e splendente ha: la verità.
A quella che non teme di farsi vedere per quel che è, che non ha altro in più da dare, che non rimanda.
A quella che sa farsi da parte, sa che domani non può che esserci qualcosa di nuovo e — perché no? — di più bello. Che sa che la vita evolve e che non può che andare meglio se oggi è già stupenda così. Non a caso, come la felicità, passa prima dagli occhi e poi dalla pancia.
A quella che sa anche che ogni cosa ha il suo tempo, che se deve andare così, così andrà, che di sicuro ha solo se stessa e tutto il resto è da meravigliarsi.
A quella che si affida, si fida, ma non possiede nulla: per quanto io lo senta un po’ mio ora che l’ho fotografato, per quanto io ci sia quasi affezionato dopo tutto, il ciliegio fiorisce anche senza di me.
A quella che non si tiene nulla per sé, che si spende e si dà totalmente agli altri. Anche a chi non aveva interesse, ma l’ha riscoperto perdendosi nella sua fragranza, a suon di scatti non venuti come voleva.
A quella che inizia a fiorire dove prima c’era solo un ramo secco e senza colore.
A quella che non ci crede all’inverno.

Nonostante le fatiche e le paure, i passi falsi e le cadute, ogni tanto a casa sua o da me spuntava fuori quel monito a vivere una vita così.

Non lo so se questo piacevole effetto collaterale fosse tra i suoi desideri, quando mi ha richiesto le foto del suo fiore preferito.
So che ha sorriso quando le ha viste la prima volta e il rosa del ciliegio vestiva le sue guance.
Era il colore della felicità, sua e mia.

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