Il movimento è vita (Cap. 1)

Buio.
Diverse scuole di pensiero.
C’è chi preferisce prendersi del tempo per organizzarsi e chi destreggiarsi con quello che le circostanze gli daranno.
C’è chi mette tutto quello che riesce e chi riesce a mettere tutto quello che aveva preparato.
Ma credere davvero che un viaggio come questo cominci la mattina della partenza è assurdo.

In realtà, in quel buio profondo della tua stanza, stai solo compiendo un rito che ti porterai sulle gambe per tutta la strada.
Stai già camminando, ma hai ancora i piedi buoni.
Hai ancora i piedi chiari.

E un viaggio come questo non parte nemmeno quando hai salutato tutti la sera prima, quando ricevi messaggini d’incoraggiamento, quando inizi a sentire la tensione, quando finisci di spuntare tutte le voci sulla tua lista più o meno immaginaria di cose da portare.

Mi son bastati 9 mesi per tentare uno dei più grandi azzardi della mia esistenza: abbandonare la vista ravvicinata del suolo per provare ad andare più su. In piedi: i bambini scoprono presto che i piedi funzionano meglio delle ginocchia e delle mani.
Dalla pancia, alle quattro zampe, alle due gambe.
9 mesi per vedere tutto da un’altra prospettiva.
9 mesi per iniziare a camminare.
Ero un batuffolo marroncino dai capelli arricciati, poco prima di compiere il mio primo anno in viaggio su questa terra.
Una conquista che mi avrebbe letteralmente portato lontano o vicino. A cosa? Non importava perché muoversi è vivere.

Credevo.

Cresci e ci credi per davvero: chi viaggia si gode la vita, chi non può, invece, rimane. Fermo. Chi ha coraggio se ne va, bisogna camminare per trovare, per raggiungere la méta, per realizzare i propri sogni. Il movimento è azione, chi si muove, fa.

Ti vuoi muovere?! Che fai lì impalato?

Anche le correnti di pensiero, spesso, vengono definite come “movimenti”: portano ad un’evoluzione, ad un progresso, ad azioni grandi.

Per 23 anni della mia vita, io sono stato un motore.
Un maratoneta, più che un centometrista; uno, che — si dicevase la viaggia.
Sapevo come muovermi.

Ma non facciamo confusione: non è che io fossi uno spirito in cerca di avventure. Non apprezzavo il viaggio in sé: viaggiare era solo lo scotto da pagare per permettermi di fare quel che desideravo. In fondo, sono un tipo da “vacanza-braccialetto”: resort confortevoli, sforzi ridotti al minimo ed in funzione della tintarella, giochi-aperitivo, balli di gruppo, mare e cibo a volontà. All inclusive, ovvio. Sono parte di quell’odiosa categoria di persone che dicono di andare in Kenya ma non osano metter piede al di fuori della struttura full optional. Ho persino fatto una vacanza senza andare al mare, visto che la piscina del villaggio era più vicina.

Poi a 23 anni dici di no.
Quest’anno no.
Quest’anno io vado a Santiago.

Ora, non è che uno batte la testa, si stufa di vivere in una certa maniera e vuole la novità. O meglio, ad alcuni capita, ma non era il mio caso.
In realtà si tratta dell’ennesima evoluzione, dell’ennesimo cammino, seppur interiore.

Bramiamo strade sicure che ci portino direttamente dove vogliamo arrivare — a volte le troviamo anche! — e ci rendiamo conto che son strade prive di scossoni, senza dossi e senza semafori, i cui limiti di velocità sono dettati solo dalla macchina della nostra esistenza.
Eppure ci lasciamo sempre ingolosire dalle stradine che costeggiano quelle strade e che sembrano portare a paesaggi ben più colorati, a mete più interessanti, a luoghi che non abbiamo neanche avuto il coraggio di immaginare per noi.
A volte ci basta persino non sapere dove portano. È che siamo strani: senza curve riusciamo a farci venire il mal d’auto.
L’ignoto ci frega sempre.
Ma non era tutto qua.
Almeno, per me, non lo è stato.

Il Cammino di Santiago è uno dei 3 percorsi che la devozione spinge il cristiano a percorrere nell’arco della sua vita.
Gli altri due sono quelli verso Roma (la Via Francigena) e verso Gerusalemme. Almeno, questa è la versione del sommo Dante e quindi guai a contraddirlo, specie se hai 25 anni e sei ancora senza una corona di alloro degna della sua.

Sono cammini di fede, le cui mete nobilitano la fatica del pellegrino: il viaggio conta perché da una parte ti tempra nel corpo e nello spirito, espiando colpe e peccati, dall’altra ti aiuta a valorizzare il senso del tuo esser partito; quel che più conta, però, è dove vai, dove si conclude il tuo viaggio, dov’è il coronamento di sforzi così immani.
Pur ritenendomi persona devota, ammetto che, della vita dell’apostolo Giacomo che — si dice — riposi presso la cattedrale di Santiago, non m’interessava granché.
(Dico si dice, anche se la vita mi ha insegnato a diffidare di chi usa l’impersonale: voi, per parte vostra, concedetemi almeno il beneficio del dubbio)

Fin da piccolo ero stato abituato a pellegrinaggi in giro per il mondo, a fare incetta di rosari e di immaginette che puntualmente finivano per aiutarmi a constatare il livello di polvere sulla mia scrivania, ma non poteva, ancora, esser tutto qua.
Almeno, per me, non lo è stato.

Tornato dalla terra di Spagna e prima di iniziare a scrivere questo libricino, ho letto tutta una bibliografia sul “Camino”, rimanendone piuttosto deluso.
Non che fossero scritti male, è che proprio non c’entravano niente col mio cammino di Santiago. Troppo o troppo poco: c’era quello che ne fa tutta un’esperienza mistica di congiunzione tra cielo e terra e le energie del cosmo; quello che ne fa un rito di iniziazione massonica; quello che cammina per dimagrire e poi si ritrova immerso in una profonda spiritualità; quello che va a caccia di giovani donne da circuire; quello che parte scalzo e deve fare per forza tutti i chilometri a piedi; quello che cammina per procura; quelli che discutono tappa dopo tappa sui principi della religione e della matematica, cercando di creare un dibattito culturalmente intrigante tra fede e scienza… ma nessuno che non ci arrivi.
Non c’è nessuno che non ce la fa.
Io volevo il libro di chi, a Santiago, non ci è arrivato.

Quest’anno, due anni dopo Santiago, ho deciso nuovamente di rivivere il buio in apertura a questo libricino, di prendere il mio zaino e di partire: questa volta fino a Radicofani, paesino alla fine della Toscana, lungo la via Francigena, quella, cioè, che il vescovo Sigerico, con un’agenda non proprio fitta d’impegni, ha deciso di percorrere da Canterbury fino a Roma.
Si dice.

“Il movimento è vita.”
Buon cammino!
Si dice.

(dal libro “Io, a Radicofani, non ci sono arrivato” di Stefano Pardini in vendita online con Amazon Prime e YouCanPrint o in Feltrinelli, Mondadori, Ibs e nelle librerie)

Comments

comments

Rispondi