Il cielo sbuffa(va) perché c’era il sole

Volevo esserci.

Come quando studi, non ti senti prontissimo, ma ti offri in classe per l’interrogazione, perché sai che quel tuo compagno a rischio ieri non ha toccato libro.
O come quando la vecchina sale in metro, non ti vede, ma riesci a capire che a malapena si regge in piedi.
O ancora come quando la valigia pesa comunque meno dell’idea di restare.

Sentivo di doverlo fare. Sentivo di dover partire.

Prendo e vado: 1, massimo 2 giorni.
Chiedo asilo a zia che replica con un “ci voleva il Papa per farti venire giù?” e parto.

8 anni prima, sempre in questi giorni, l’avevo vista in diretta dal bar dell’oratorio, come tifoso più che come fedele – ma si sa, c’è più gusto ad essere Italiani: non abbiamo alcun tipo di patriottismo, ma quando si tratta di fare il tifo per l’Italia siamo dei gladiatori.

La fumata.

3 storie al volo, 3 incontri.
C’è un prete, una suora e uno che fa fatica a crederci.
Quello che sembra l’inizio di una barzelletta è stato un momento tra i più intensi della mia vita.

Quella del prete è una storia che guardava al futuro.
L’ho conosciuto su Twitter: ad essere in pochi e a parlare di fede è facile che ci si trovi.

«Se non riesci a parlare di Dio al tuo fratello, parla a Dio del tuo fratello» (D. Bonhoeffer) Io – ora – gli parlo di voi

è stato il suo primo tweet che mi ha incuriosito.

Arrivo a Roma e, per andare verso casa di zia, passo dal colonnato, giusto per vedere la fumata della mattina di quel mercoledì: quella distratta, con la piazza sparuta, ma col sole.
Piazza S.Pietro quasi schermata.

“Ma proprio tutti col naso in sù”

“ed io ti ho visto, anzi mi sei davanti…” 

Lì per lì ho trascurato il cellulare, quindi leggo solo dopo pochi minuti, appena rincasato. Ci diamo appuntamento per la fumata che tutti aspettavamo e che tutti sentivamo sarebbe stata quella giusta.
Ovviamente nella fiumana non ci troviamo: io sono molto avanti, con l’ombrello, sotto la pioggia a parlare con curiosi e fedelissimi; lui è all’obelisco, arriva di corsa dalla lezione in università.

Ci ritroviamo la mattina dopo per colazione a Santa Maria Maggiore, ignari della visita lampo del nuovo Papa, a pochi metri dal tavolino con i nostri cappuccini e le nostre brioches.
Il conclave, per noi, è stato anche il momento che ha dato inizio ad una nuova amicizia.
E c’era un sole eterno quel giorno, come la città.

 

Quella della suora è una storia che guardava al passato.
Siamo in piazza e c’è stata fumata bianca: un tripudio di colori e di suoni. Io sto spiegando a 2 milanesi cosa prevedeva il rituale in quell’oretta di attesa trepidante – ognuno è nerd a modo suo. Non giudicatemi (solo) per questo.
Si avvicina una piccola suora, argentina, e si unisce alla conversazione incuriosita.
È il momento dell’annuncio e risuona il nome di “Georgium Marium”.
PANICO.
Si leva un “Chi?”
“cardinalem Bergoglio”
ed io ripenso ai nomi che ricordavo. La suora inizia a piangere di gioia: abbraccia tutti e capiamo: è argentino. Il meglio che potessimo sperare: qualcuno che nessuno di noi conoscesse abbastanza da poter dire la sua, da sentirsi preparato. Non potevamo che essere contenti perché comunque l’attesa era finita.
Tutti tranne quella suora, che con quelle lacrime di gioia ci dava testimonianza di quanto l’incontro con quell’uomo avesse cambiato la sua vita: era di Buenos Aires ed era stata letteralmente rialzata dal basso della sua esistenza dall’allora cardinale Bergoglio, che le aveva dato un motivo per ripartire. Un motivo a cui lei ha voluto poi dedicare la sua vita: la fede.

Stavamo vivendo un pezzo di storia e ne eravamo coscienti.
Piovviginava ancora, ma abbiamo chiuso tutti gli ombrelli.
E tornò il sole.

 

Quella di uno che fa fatica a crederci è una storia che guardava al presente.
Nel gruppetto di curiosi con cui trascorrevo i minuti di attesa c’era anche un uomo verso i 60, composto, sobrio ed elegante.
Nella mia storia è stato colui che poco prima della fumata mi ha detto cavoli, sarebbe bello fosse quella giusta..!
Alla prima sbuffata del caminetto, anche lui si è messo a piangere: abitava poco oltre le mura vaticane, ma non aveva osato metter piede nella piazza da anni. Era un inguaribile innamorato di una Chiesa che troppe volte non era stata all’altezza del mondo. Almeno del suo e questo bastava. Ma quel giorno aveva deciso di esserci. Quel giorno lì, nella storia.

“Vado a casa però”
“non rimane per l’annuncio?”
“no, me lo guardo meglio in tv… È tutto così… potente che non me la sento”

Una stretta di mano, 2 sorrisi e un chissà che non ci si incontri di nuovo. È stato un piacere.
E lo è stato per davvero.
Era come se fosse tornato il sole, anche nella sua vita.
Quantomeno nella sua giornata.
In tutte e tre le storie un caminetto che fuma, il sole e il silenzio, quello che precede di qualche istante il padrenostro più intenso, intimo e allo stesso tempo universale su cui Papa Francesco decide di puntare nel suo primo saluto.

Un momento che entra nelle ossa e nelle fondamenta dei muri delle case.

Una catena di mani che davvero erano il mondo, una catena che mi ha forzato a metter via il Vangelo che avevo con me, come a dirmi che non avevo bisogno di altre pagine in quel momento.

C’era il sole ma nessuno aveva portato con sé gli occhiali.

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